Intervista alla scuola libertaria biocentrica “La vita al centro”

Di seguito riporto la mia intervista alla scuola libertaria biocentrica “La vita al centro”, che ha da pochi mesi aperto a Torino. Le mie domande si sono concentrate in particolare sull’elemento libertario e sul rapporto dei bambini da un lato con gli insegnanti e dall’altro con la natura e il sapere pratico. Maggiori informazioni reperibili sul sito della scuola.

Intervista realizzata il 15/03/2013.

In che senso definite la vostra pratica libertaria?

Per tutta una serie di caratteristiche, ad esempio non abbiamo i voti e cerchiamo di limitare l’utilizzo dei libri di testo. Cerchiamo di sviluppare le nostre attività di apprendimento a seconda di quali temi suscitano maggiore interesse nei bambini.
La scelta dei libri per ora l’abbiamo fatta noi, ma coi bambini scegliamo delle riviste.. Le scegliamo insieme.
In realtà di libri di testo veri e propri noi ne abbiamo tantissimi e con molte prospettive diverse. Per l’apprendimento della lingua, degli esperimenti scientifici e per l’osservazione dell’ambiente però non li usiamo perché quello che facciamo va molto oltre gli spunti che questi danno. Invece usiamo un libro di matematica diverso per ogni bambino (in riferimento alla prima elementare). L’apprendimento è quindi completamente individualizzato e tiene conto del ritmo dei bambini.
La mattina chiacchieriamo tutti un po’. Se qualcuno vuole può parlare di qualcosa, raccontarci un sogno… e dopo da lì gli spunti nascono anche per il lavoro.
In più andiamo su internet quando troviamo delle cose nell’ambiente che suscitano la nostra curiosità: per esempio una volta abbiamo trovato uno scheletro di rana al parco. L’abbiamo preso e abbiamo fatto ipotesi su come fosse finito lì. Dopodiché siamo andati a cercare su internet per scoprire che cos’era. Cose di questo tipo. Per noi internet è un ulteriore libro di testo. Anche per i bambini.

Sul vostro sito parlate di “istituzioni di democrazia partecipata”. Che cosa intendete esattamente?

Per esempio molte cose le decidiamo insieme con i bambini. Cerchiamo di non arrivare alla votazione, perché ci piace molto di più arrivare a un consenso. Quindi ragioniamo su varie modalità. Cerchiamo di arrivare al consenso, che per noi è la cosa migliore. A volte si vota: il nostro voto vale uno, quello dei bambini vale 1, quindi noi siamo ininfluenti sui bambini.

Questo è un problema tipico nelle scuole libertarie: i bambini sono la maggioranza quindi…

… vincono sempre i bambini.

Per quanto riguarda invece la prima elementare, immagino ci siano vincoli istituzionali più stringenti, come programmi ministeriali da seguire, come…

Eh sì, ci sono i programmi! Ma i bambini apprendono a una velocità pazzesca oggi, e poi in questa modalità apprendono più velocemente. Io ho insegnato per 23 anni nella scuola statale, quindi vedo bene la differenza. Qui è un privilegio, anche perché per ora abbiamo solo 5 bambini. Siamo due educatrici e ora sta entrando il terzo.

Una critica piuttosto diffusa quando si parla di scuole libertarie è che ai bambini non piace la matematica. Quindi in questo caso la si dovrebbe imporre?

In realtà i nostri ne vanno pazzi! Ho visto scene di bambini che pregavano “maestra, facci fare la matematica!”

Va bene, non dev’essere necessariamente la matematica. Se a un bambino non piace una qualsiasi materia e si rifiuta di farla, come vi comportate?

E’ chiaro che ogni scuola libertaria deve tenere conto delle leggi del paese in cui si muove. Noi abbiamo visto che ad esempio la Kapriole [con sede a Friburgo ndFT] non ha questo vincolo perché non ci sono dei punti di arrivo così specifici come ci sono in Italia. Per la matematica noi riteniamo si debba dare ai bambini una motivazione per farla, quindi mostriamo loro degli esempi reali del suo utilizzo; per esempio l’altro giorno siamo andati tutti insieme al supermercato, e una volta arrivati abbiamo fatto un’ipotesi: “secondo voi quanto spenderemo? Questa è la lista…”. Ognuno ha detto la sua e non ci ha azzeccato nessuno, perché era molto più alta la cifra! E poi mentre eravamo lì a pagare un bambino ha detto: ”posso andare a vedere quante casse ci sono?”. “Ce ne sono trentasette”. E allora: “quante casse sono piene?”. Un altro è andato a vedere quante casse erano vuote, e così è avvenuta una sottrazione, no? Ecco, la matematica deve nascere da lì, allora diventa motivante anche per i bambini.

Il collegamento fra studio e realtà nelle scuole tradizionali tende a essere molto fievole. Voi svolgete molte attività pratiche per diminuire questa distanza. Ce ne volete parlare?

Prendiamo la questione del rapporto con la natura: come si crea un legame con la natura? Solo vivendo nella natura, e questo noi cerchiamo di farlo il più possibile. Usciamo quasi tutti i giorni: andiamo al parco, facciamo esplorazioni, guardiamo le cose con la lente. Poi abbiamo le piante a scuola, che loro hanno travasato, compriamo la terra (se ne occupano i bambini), facciamo falegnameria… diciamo che le mani le usiamo. Poi facciamo musica, cucina, abbiamo vari laboratori. E i bambini si dimostrano molto capaci nel fare con le mani. Sono abituati ad avere un progetto e poterlo realizzare e quindi non lasciano praticamente mai una cosa a metà, perché è una cosa loro. E così anche nell’apprendimento: se una cosa è loro, se è una cosa che loro sentono vicina, di solito la motivazione non si abbassa praticamente mai.

Proporre un modello di scuola libertaria ai bambini pone un importante dilemma etico, difficilmente eludibile: è naturale chiedersi se per i bambini sia meglio o peggio avere una qualche autorità che li guidi più o meno coercitivamente nei loro dubbi ed incertezze, se la libertà valga il prezzo dello stress del non sapere cosa “dovere” essere o diventare. In altre parole, un bambino libero non rischia anche di essere un bambino paralizzato dai dubbi che genera l’assenza di modelli di riferimento forti?

La questione dei limiti è fondamentale, non solo per i bambini. La scelta di per sé comporta dei limiti. In questo senso i limiti sono necessari: i bambini non possono decidere tutto. Noi stiamo facendo un percorso verso la democrazia, però non decidono tutto loro. Anche perché i bambini a cinque o sei anni non sono così motivati alla democrazia. Quando votano, votano perché l’ha detto il compagno preferito.
Dobbiamo muoverci in rapporto al contesto in cui siamo, perché se ci muoviamo staccati dalla realtà non ci troviamo più neanche noi… ci perdiamo. Inoltre, viviamo in una realtà, l’Italia, che ha delle istituzioni e delle leggi di un certo tipo, il che impedisce di adottare scelte più radicali.

Cosa ci potete dire del rapporto dei bambini con voi insegnanti?

Per noi è molto più difficile gestire i bambini in un contesto più libero, piuttosto che col metodo tradizionale: “state tutti seduti ecc.”. Ogni giorno devi pensare a qualcosa di diverso. Per questo curiamo molto la relazione fra noi insegnanti. È molto faticoso mentalmente e fisicamente, di conseguenza una buona relazione fra di noi è essenziale. Il clima di affettività è però dilagante, fra di noi e con i bambini. I bambini sono felici [una mamma/insegnante mi racconta di sua figlia e di come si sia trovata meglio che nella materna statale. Mi dice che “non tornerebbe mai indietro” ndFT].
I genitori inoltre sono molto partecipi, organizzano eventi e aiutano in vari modi. Poi ci si trova periodicamente per fare riunioni, per risolvere problemi, anche con i bambini… si affrontano insieme i problemi, c’è molta partecipazione. L’altro giorno il campanello non funzionava e un papà l’ha riparato, ognuno fa la sua parte. Le mamme organizzano delle giornate dove ci si incontra tutti insieme, loro cucinano e si cerca di raccogliere anche dei fondi per finanziare le quote agevolate. Per questi eventi le mamme fanno anche i volantini. Non lo fanno per farci un favore, o perché noi lo chiediamo, lo fanno perché sentono che è una cosa anche loro questa scuola. Una piccola comunità.

Per concludere un paio di domande sulle questioni tecniche.
Dal punto di vista legale come vi ponete? Le vostre rette di iscrizione sono sostenibili per le famiglie?

Per quanto riguarda la prima domanda, noi facciamo istruzione parentale: la nostra è un’associazione di genitori ed educatori, quindi i genitori hanno il progetto della scuola e lo sottoscrivono.
La seconda questione è più complessa. Abbiamo dei costi e dobbiamo rientrare con le spese. Tuttavia i genitori hanno la possibilità di risparmiare sulla quota di iscrizione collaborando alle attività della scuola. Un papà viene a fare inglese una volta alla settimana e due maestre sono anche genitori. Ci sono scambi di questo tipo. Il nostro obiettivo è che questa un giorno diventi veramente una scuola per tutti, così da potere accogliere anche i bambini le cui famiglie non possono permettersi di pagare. Però adesso ancora non è possibile.

Avete delle relazioni con la rete italiana delle scuole libertarie o con l’EUDEC?

Stiamo cercando di associarci. E’ un anno che abbiamo chiesto di entrare nella rete italiana. Per ora non abbiamo ancora avuto una risposta definitiva. Adesso dovrebbe venire qualcuno a vedere la scuola.

Grazie mille per il tempo che ci avete concesso.

Grazie a te.

Intervista originariamente pubblicata il 7 aprile 2013 su decrescita.com

Intervista ad Alberto Gamberini

Lo ammetto, non sono un grande esperto di teatro; le rare volte che ho assistito a uno spettacolo teatrale ne sono uscito tendenzialmente annoiato, con un sapore di già visto in bocca, di artefatto, come alla fine di una storia di cui sin dall’inizio si conosce il finale. Poi, un po’ per caso e un po’ per curiosità, mercoledì scorso mi sono recato con un amico ad assistere a uno spettacolo teatrale inserito nella cornice di un piccolo spazio all’aperto nel centro della mia città, sul retro di una chiesetta: il titolo era “Saldi di fine ragione”, scritto e recitato da Alberto Gamberini.

Avendo letto il sunto del monologo sul depliant di presentazione, sapevo che avrebbe per lo meno stimolato il mio interesse.

Il depliant recitava:

“Spettacolo centrato sulle vicissitudini dell’essere umano nel suo vivere la realtà quotidiana, spesso frenetica, a tratti nevrotica, piena di urgenze e soluzioni prese all’ultimo minuto. In tutto questo correre incessante può capitare di perdere la percezione di sé e del proprio pensiero […]. Ma ecco arrivare “La Penisola che non c’è”, il luogo ideale che ognuno di noi può creare nella propria immaginazione. Una terra democratica che […] si potrebbe concretamente realizzare solo quando ogni individuo sarà capace di cambiare se stesso partendo dalle piccole cose.”

Insomma – ho pensato – il classico polpettone filosofico buono negli intenti ma assolutamente soporifero nella realizzazione. E invece mi sbagliavo, perché il lavoro di Gamberini non solo non era noioso, ma addirittura divertente, pur conservando intatta la profondità del messaggio di cui parlava la presentazione. Tutto, dalla recitazione al testo, dalla mimica all’accompagnamento musicale, mi ha affascinato, tanto da spingermi a contattare l’autore per un’intervista.

Questo è ciò che ci siamo detti (intervista del 15/07/2012):

Il tuo ultimo spettacolo si intitola “Saldi di fine ragione”, monologo scritto e recitato da te. Ce ne vuoi parlare?

E’ uno spettacolo che “nasce” all’incirca un anno fa. Mi trovavo in tournèe con la Compagnia Teatrale Paolo Poli e attraversavamo un periodo di debutti molto intenso, con continui spostamenti da una città all’altra. Era anche un periodo di forte tensione sociale a causa di una politica sempre più lontana dalla realtà quotidiana delle persone ed incapace di confrontarsi sui principali temi della vita sociale. Ovunque andassi avvertivo un mormorio comune: tutti si erano stancati di questa presa in giro istituzionalizzata.

Così ho iniziato ad analizzare concretamente ciò mi accadeva attorno e da lì è nato il progetto. Uno spettacolo di teatro-canzone (con l’appoggio di Andrea Gipponi come autore e arrangiatore delle musiche ed Emanuela Sabatelli in cabina di regia) che cerca di ricostruire la storia di un trentenne incapace di sviluppare un pensiero poiché smarritosi in una società alienata, il cui unico imperativo è correre. Un “viaggio” scritto attraverso i criteri di una tragedia greca: partendo da un prologo (lo smarrimento dell’Io) e passando per episodi come quello di Charlie il Matto (un uomo che non riesce più a muoversi dal suo divano perché colpito da un forte senso di nausea) e Vladimiro (un attore in crisi perché non riesce a divulgare il suo teatro), si arriva all’epilogo finale, all’invettiva dell’emblematico Professore, con l’Individuo che, ricostruita la propria identità, sarà anche in grado di recuperare il Pensiero, rendendosi così conto che attraverso gli anni ha sempre accettato tutto a buon mercato, senza mai opporsi concretamente, ma solo lamentandosi.

In “Saldi di fine ragione” parli di una “penisola che non c’è” – utopica ma raggiungibile – che si potrà concretamente realizzare solo quando ogni individuo sarà capace di cambiare se stesso partendo dalle piccole cose. Il protagonista del tuo spettacolo alla fine ci riesce, dopo un percorso interiore piuttosto travagliato. Credi vi sia qualche possibilità anche per le persone reali?

Assolutamente sì, altrimenti non avrei neanche portato in scena “Saldi di fine ragione”. Ho molta fiducia nelle specie umana, l’unica capace di adattarsi alle molteplici situazioni della vita. Considero la storia come un susseguirsi di eventi ciclici in cui l’uomo ha già dato dimostrazione negli anni di saper affrontare e superare momenti di eclissi socio-culturale. Così come c’è stato un Rinascimento, sono convinto che arriverà un Rinascimento Post-Moderno. Però, come tu giustamente sottolinei, il percorso per raggiungere “La pensiola che non c’è” è travagliato, poiché ciò che risulta essere difficile all’Uomo, oggi come oggi, è prendere coscienza di quello che si è, del proprio ruolo all’interno della società, cercando di capire che prima di criticare occorre osservare se stessi e rendersi conto che per realizzarsi davvero bisogna sapere condividere. Un’idea, un pensiero, la parola, non sono mai complete se non si confrontano con le opinioni di un’altra persona.

Quale funzione può assolvere il teatro e più in generale l’arte in tutto questo?

Una funzione vitale. Il progresso storico può essere incentivato se alla base vi è una comunità acculturata. Ogni cambiamento sociale o invenzione scientifica si realizza anche attraverso lo sviluppo della conoscenza. Credo che tutto ciò che esiste ha un suo punto di partenza e di fine (quest’ultimo è da considerarsi non come arrivo, ma come punto d’inizio di qualcosa d’altro); solo l’energia non si crea né si distrugge, ma si trasforma. Quindi l’Arte può aiutare a divulgare il Sapere, arricchire le persone, alimentare sinergie, alchimie, rendendoci sempre più artefici e reali protagonisti del nostro momento storico e non più succubi di un sistema autoritario fintamente democratico.

Il fine che i tuoi personaggi puntano a raggiungere e la via che percorrono per farlo (i piccoli passi alla ricerca del proprio io e della facoltà di pensare criticamente) si avvicinano molto ai fini e ai metodi proposti dai vari movimenti che propugnano una Decrescita Felice. Ti senti in qualche modo vicino a tali movimenti o si tratta di una semplice coincidenza?

In realtà si tratta di una semplice coincidenza. Ammetto di essere un po’ estraneo alla tecnologia informatica, conosco poco il mondo del WEB e tutte le realtà annesse come quelle dei blog, ma non mi stupisce avere punti in comune con la Decrescita Felice. I temi che trattate appartengono a quel famoso mormorio comune di cui ti parlavo precedentemente. Chi riesce ad ascoltare attentamente questo brusio ha il dovere di divulgarlo con l’intento di poter trovare una risposta democratica. Il vostro è un ottimo lavoro.

Il tuo teatro è riflessione, comicità e musica. Ci vuoi parlare del tuo approccio al teatro e delle tue fonti di ispirazione?

Ho frequentato per diversi anni una scuola di recitazione a Milano, Campo Teatrale, dove mi sono diplomato nel 2004. Pochi mesi dopo entravo a far parte del mondo professionistico dello spettacolo, grazie ala Compagnia Teatrale Paolo Poli che mi propose il mio primo contratto d’attore. Entrare giovanissimo in una compagnia di primaria importanza è stata una delle più grandi fortune della mia vita (oggi Alberto Gamberini ha appena 29 anni, ndFT). Poli è un grande maestro del nostro teatro, eclettico, capace ancora di stupire e scandalizzare.

In seguito ho cercato di coniugare l’esperienza maturata nella compagnia con la passione sfrenata che da sempre coltivo per Giorgio Gaber. Purtroppo non ho mai avuto la fortuna di vederlo dal vivo, ma sono cresciuto ascoltando i suoi brani, le sue prose, soprattutto grazie ai miei genitori che hanno seguito Gaber fin dagli esordi al Piccolo e successivamente al Lirico (quest’ultimo un evidente esempio di realtà culturale trascurata passata quasi sotto silenzio nell’indifferenza generale).

Così mi sono affezionato al teatro-canzone, un genere che dopo il “maestro” Giorgio non ha più avuto molto seguito smarrendosi negli anni. Il mio umile personale tentativo è di rivitalizzare questa forma di comunicazione teatrale, che affronto con grande entusiasmo poiché la reputo ancora capace di poter trasmettere – attraverso una sinergia di musica e testo – una risata intelligente, una critica sociale e una reale possibilità di riflettere col sorriso.

Per finire una domanda dedicata a chi volesse assistere a “Saldi di fine ragione”. Sono previste delle repliche? Puoi darci delle date e dei luoghi?

La domanda più difficile. Per ora il progetto è stato inviato a diversi teatri italiani, che mi auguro abbiano modo di valutarlo meritevole di replica. Al momento nulla di concreto, rimango in “trepida” aspettativa…

Comunque chi fosse interessato può tenersi aggiornato tramite il mio profilo Facebook, dove vengono pubblicate tutte le date degli spettacoli.

Articolo originariamente pubblicato il 16 luglio 2012 su decrescita.com

Intervista a Gianfranco Zavalloni

Riporto di seguito la trascrizione della mia intervista a Gianfranco Zavalloni, pedagogo e dirigente scolastico autore di numerosi libri sui temi dell’ambiente e della scuola.

Il suo ultimo lavoro, edito da Emi, si intitola “La Pedagogia della Lumaca: per una scuola lenta e non violenta”.

L’intervista ha avuto luogo il 20 maggio 2012.

Gianfranco, ci puoi descrivere un po’ qual’è stata la tua esperienza lavorativa?

Nell’82-’83 mi sono laureato in economia e commercio con una ricerca sulle tecnologie appropriate, che poi è stato l’impegno di volontariato di tutta la mia vita. Per capirci il mio professore di riferimento è stato Carlo Doglio. Ora ho 54 anni, e forse sono stato uno degli ultimi suoi studenti. Carlo Doglio è stato quello che ha fatto conoscere in Italia Schumacher e “piccolo è bello”. Quindi i temi su cui mi sono laureato già allora erano temi discussi. All’epoca si parlava di tecnologie appropriate, cioè a misura d’uomo, ora si parla di decrescita. Fra le altre cose sono anche stato fra i fondatori dell’eco-istituto di Cesena, che allora si chiamava “Gruppo di Ricerca sulle Tecnologie Appropriate”. In seguito, nel mio lavoro, ho sempre cercato di essere coerente con quei principi. Non so se hai avuto occasione di leggere il mio ultimo libro (ndFT. “La Pedagogia della Lumaca”), ma io lo ritengo il manuale pedagogico della Decrescita Felice, poi magari qualcuno che non l’ha ancora letto non se ne è accorto… Nel mio lavoro ho sempre cercato di portare la mia esperienza di vita e una volta diventato dirigente scolastico, dopo aver lavorato per sedici anni – dal 1980 – nella scuola materna, ho avuto a che fare con elementari e medie e mi sono accorto dell’impazzimento che c’è nella scuola, dovuto a tutta una serie di elementi che hanno portato a una scuola dove tutti dobbiamo correre perché dobbiamo fare i programmi, e gli insegnanti sono stressati da questo e stressano i bambini, e così i bambini apprendono di meno.

Dunque quali sarebbero, nella tua prospettiva, gli elementi da cambiare?

Intanto l’approccio generale. Non è portando nozioni e quantità di informazioni che i bambini imparano. I bambini apprendono già da tanti altri elementi. Una buona trasmissione di Piero Angela su un argomento ad hoc può essere molto più efficacie di un anno di insegnamento di un professore di storia o di scienze. Il compito della scuola è fornire ai bambini gli strumenti per interpretare e valutare criticamente tutte le informazioni che il mondo offre loro. E l’altro aspetto è quello di farlo insieme, sapendo che le cose si apprendono soprattutto se si introiettano, se si fanno proprie. Questo è ciò che sostengo nel mio ultimo libro, ma anche in quello precedente, “la scuola ecologica”, dove mi rifacevo ad un proverbio che dice: “se ascolto dimentico, se leggo ricordo, se faccio imparo”. Allora tu impari se fai certe cose. Una delle mie battaglie riguarda ad esempio la lotta contro le fotocopie a scuola, perché i bambini spesso stanno tutto il giorno a compilare delle schede. Se ti facessi vedere un quaderno che mia moglie, insegnante, mi ha portato di un collega di scienze – di cui non faccio il nome – è dalla prima all’ultima pagina, davanti e dietro, una fotocopia incollata e fatta colorare ai bambini. L’insegnante è convinto di aver fatto il programma, il bambino invece ha semplicemente colorato degli spazi con dei segni di diversi colori. Allora è molto più efficace per il bambino disegnare da solo il corpo umano, una volta nella vita, cercando di capire dove sono collocati i vari organi, piuttosto che mettersi lì a riempire di colore una fotocopia fatta da altri. L’aspetto interessante è che il bambino in questo modo si appassiona di più e vive in maniera più diretta la scuola. Un bambino che fa un orto a scuola, ad esempio, apprende veramente tutta una serie di cose pratiche che non sono soltanto quelle scritte su un quaderno o lette su un libro. Il bambino che impara la calligrafia, cioè ad usare la cannetta col pennino, non è che perde del tempo, ma impara a organizzare diversamente i suoi spazi. Noi abbiamo visto che l’effetto immediato dei bambini che imparano la calligrafia, ad esempio, è quello di essere più ordinati. L’idea di fondo del mio ragionamento è che è meglio fare a scuola meno cose e farle meglio, piuttosto che fare tante cose e farle male.

Nei tuoi libri sostieni l’importanza del rapporto dei bambini con la natura ed il sapere pratico, che le nuove generazioni stanno in parte perdendo. Sei stato anche uno dei fondatori di un movimento, quello degli “Orti di Pace”, che si inserisce proprio in questa prospettiva. Ce ne vuoi parlare?

Prima di tutto devo dire che l’esperienza dell’orto è stata per me un’esperienza di origine familiare: sono figlio di agricoltori, mio padre è stato uno dei primi agricoltori biologici qui della Romagna e io stesso ho sempre creduto nell’agricoltura biologica e nella sua proposta. Durante i miei anni come maestro di scuola materna ho fatto l’esperienza dell’orto a scuola. Per me è stata una cosa estremamente naturale, e mi sembrava normale che nelle scuole si facessero questo tipo di esperienze. Più tardi, divenuto direttore didattico, quando sono capitato nel ’99-2000 nelle Marche – a Pennabilli per la precisione – sostenni l’introduzione di un orto biologico nelle mie scuole. Da lì, riconobbi l’importanza dell’orto da tutti i punti di vista, non soltanto come semplice esperienza di coltivazione, ma proprio come esperienza globale. Ciò che sostengo è che l’orto metta in moto tutta una serie di aspetti quali la manualità e l’intelligenza pratica, oltre al fatto di educare i bambini all’attesa: non puoi seminare e poi “tirare” le piante in un orto per farle crescere, devi aspettare, devi avere i tuoi ritmi eccetera. A prescindere dall’aspetto naturalistico ed ecologico, l’orto è dunque educativo di per sé. Queste esperienze hanno poi portato, nel corso degli anni, alla formazione di un movimento di scuole che si è successivamente esteso ad altre realtà quali ASL, carceri e aree urbane. Insomma, tutto quello che è la coltivazione spontanea di piccoli pezzettini di terra l’abbiamo definito “orti di pace”, in contrapposizione all’idea degli “orti di guerra” di mussoliniana memoria. Quindi l’orto come strumento di pace. Anche perché dal punto di vista politico l’orto è il luogo meno condizionabile dall’alto, è veramente un posto dove puoi farti un’esperienza senza aver bisogno di nessuno che ti dia ordini e ti dica come devi farlo, è un po’ la tecnologia conviviale che proponeva Illich, una tecnologia non condizionabile da scelte politiche superiori. Quindi, dopo una fase iniziale in cui si trattava di una semplice aggregazione di scuole che si davano appuntamento, si è arrivati alla nascita di un movimento vero e proprio, costituito da realtà disparate che si ritrovano intorno ad alcuni punti fondamentali: il primo è un documento che si intitola “manifesto per una rete di orti di pace”; il secondo è un appuntamento annuale o biennale, tipo convegno nazionale, di scambio di esperienze; il terzo è un sito internet (ortidipace.org), e adesso stiamo andando avanti con l’idea di realizzare un censimento di tutte queste realtà, ma senza nessuna voglia di coordinare o di imporre niente a nessuno. È un movimento spontaneo, che è nato dal basso.

Nell’ultimo libro di Codello e Stella, “Liberi di Imparare”, che tratta il tema delle scuole democratiche e libertarie, è citato anche il tuo libro “la Pedagogia della Lumaca”. Ci puoi dire se vi sono punti di contatto fra la prospettiva democratico-libertaria e la tua visione della scuola?

Guarda, considera che io mi sono sempre ritenuto un ecologista non violento, quindi la prospettiva delle scuole libertarie è sempre stata anche la mia. Fra i miei riferimenti ci sono Ivan Illich, maestro di Latouche. Mi sono laureato su questi personaggi, il mio professore era anarchico e io sento molto questo spirito chiamiamolo libertario-anarchico. Uno dei numeri della rivista Volontà (ndFT rivista anarchica fondata nel 1961) negli anni settanta titolava “lento è bello” – te la dice lunga sulle motivazioni culturali di quello che stiamo discutendo. Io e Francesco Codello ci siamo conosciuti, ci siamo sentiti e ci consideriamo della stessa area culturale. Io vengo più dal mondo cattolico, del volontariato, vengo più dall’esperienza di Barbiana e non conosco personalmente Summerhill (ndFT una delle prime scuole democratiche, fondata nel 1921 in Inghilterra e ancora attiva) e l’esperienza delle scuole democratiche personalmente, però le considero un mio riferimento culturale importantissimo.

Per concludere, cosa ne pensi del movimento per la decrescita e della prospettiva della decrescita felice?

La prospettiva della decrescita felice è esattamente la mia prospettiva. Lo ritengo un movimento importantissimo, spero che prenda sempre più piede e che anche molte realtà politiche si avvicinino a questo tipo di approccio. Personalmente sono stato anche impegnato nel primo movimento dei Verdi, essendo stato consigliere comunale dei Verdi negli anni ’80, quindi quando i Verdi non erano ancora un partito. Queste tematiche erano già trattate allora, poi indubbiamente la cosa interessante che ha fatto Pallante e in un certo modo lo stesso Latouche è stata aver dato una definizione molto provocatoria a tutto ciò. Io le cose di cui parliamo oggi le chiamavo tecnologie appropriate perché così le chiamava Gandhi, così le chiamava Ivan Illich e così le chiamava Schumacher, ma sostanzialmente l’approccio è quello. Perciò mi auguro che non soltanto il movimento di Grillo, non soltanto realtà autogestite come quelle con cui lavoriamo noi siano attente a questi temi, ma cominci ad essere qualcosa di un po’ più diffuso. Spero che il movimento non degeneri come ad esempio è successo con quello dei Verdi, che purtroppo ha iniziato a degenerare nel momento in cui si è fatto partito. Ma credo che queste tematiche siano davvero trasversali. Come diceva allora Alex Langer con una famosa battuta, era difficile dire se il movimento dei Verdi fosse di destra o di sinistra, perché era avanti. Ecco io credo che il movimento della decrescita sia un movimento che è avanti, probabilmente un movimento di tipo profetico che vede ancora la maggior parte della gente insensibile.

Intervista originariamente pubblicata il 20 maggio 2012 su decrescita.com